Recensione Mendel Max 3: la fine di un mito?

Pietro Meloni Stampa 3D

Meritatamente considerata tra i principali protagonisti della “rivoluzione RepRap”, Mendel Max giunge alla “Version 3” piuttosto in sordina.
E’ tramonto delle stampanti Fai Da Te? Può darsi. Certamente, oggi sono disponibili svariati modelli di stampanti costruite industrialmente di ottima qualità, a costi concorrenziali e pronte all’uso. Ha ancora senso investire qualche settimana, dubbi, arrabbiature per montare da soli una macchina che alla fine può costare notevolmente di più ed offrire prestazioni inferiori? Dal mio punto di vista, se lo scopo non è tanto quello di stampare, ma di sfruttare l’occasione della costruzione per comprendere più a fondo i retroscena della stampa 3D, allora si, ha ancora un senso. Certo, come ho già fatto più volte, sconsiglierei l’acquisto di un kit (di qualsiasi genere) agli impazienti, ai frettolosi, ai pasticcioni, e più in generale a chi vorrebbe stampare subito (e bene).

La costruzione di un kit è un’operazione complessa, che richiede una considerevole esperienza nel bricolage, competenze di meccanica e di elettronica, uno spazio di lavoro tranquillo e a lungo disponibile, un sacco di pazienza. Ma la questione principale rispetto alla Mendel Max 3 alla fine non è tanto a chi è (e a chi non è) destinato questo kit, ma cosa esprime di nuovo rispetto alle versioni precedenti.

Nelle comparazioni, oltre a considerare naturalmente le V1 e V2, includo anche la “Mendel Max 2.5”, una macchina non ufficiale, che tuttavia presentava interessanti soluzioni costruttive.

Nonostante da molti ritenuto ormai superata, l’architettura semigantry con il piano di lavoro scorrevole sull’asse Y rappresenta un punto di continuità con il passato.

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Completamente nera e un tantino lugubre, la MM3 appare sfacciatamente meccanica, per il piacere degli appassionati della cinematica “a vista”.

Il primo, positivo cambiamento è l’adozione di uno chassis chiuso. Finalmente, un cablaggio pulito. Scompaiono dalla vista i vari cavi, le schede elettroniche, l’alimentatore, ora completamente racchiusi nella base della macchina. Due fin troppo robusti Chain Cable racchiudono le “vene elettriche” che portano energia e segnali all’estrusore e all’asse X.

Il secondo colpo d’occhio va alle guide. Gli scorrimenti avvengono ora su ruote in gomma montate su cuscinetti, che insistono su cave a V. Nonostante le rassicurazioni dei progettisti, questa soluzione che ricorda troppo i pattini a rotelle ci piace assai meno, rispetto alle ottime guide prismatiche della MM 2.5. Fatto marginalmente positivo, sono anche apparentemente scomparsi i due motori Z, ora integrati nel basamento della macchina.

Abbandonata la trazione ad ingranaggi, che consentiva regimi minimi di avanzamento del filo e di conseguenza l’impiego del diametro 3.0, la macchina utilizza ora filamenti calibro 1.75.

Nello stile “duro e puro” di una moto naked, niente display, né jog, né lettore di schede SD. Almeno per quest’ultimo, la comodità di stampare in modo stand alone sarebbe stata sicuramente apprezzata. Tanto più che qualche sforzo di rendere la macchina “interattiva” è stato fatto, con la curiosa aggiunta di due strisce led, una alla base e una dietro al logo intagliato, che cambiano colore durante le varie fasi di lavoro della macchina.

Tutto sommato, l’intervento generale su progetto appare in qualche modo più estetico che funzionale. In un certo senso è comprensibile: Mendel Max è ormai quasi un oggetto di culto: un cambiamento radicale sarebbe stato poco apprezzato dal popolo Mendel: un po’ come se Harley Davidson proponesse una motocicletta carenata. Mendel Max ha il look & feel di una radio a valvole, e gli appassionati la vogliono così.

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